Pärt, Elgar & Beethoven

Sergej Krylov, direttore/violino

Natalie Clein, violoncello

RINVIATO A DATA DA DESTINARSI

  • Luogo

  • Politeama Garibaldi

  • Giorno

    ora

    Durata

    Prezzo

     

  • Giorno

    Sabato
    11 Aprile 2020

    Ore

    17,30

    Durata

    85min.

    Prezzi

    25 - 12 €

    Calendario

  • Programma

  • Arvo Pärt
    Paide 1935

    Fratres per violino, orchestra d'archi e percussione

    "La più alta virtù della musica, per me, risiede al di fuori del suo puro suono. Il particolare timbro di uno strumento è parte della musica, ma non è l'elemento più importante. Se lo fosse, mi sarei arreso all'essenza della musica. La musica esiste per se stessa… due, tre note… l'essenza deve essere lì, indipendente dagli strumenti".

    Quest'affermazione di Arvo Pärt, compositore estone il quale, attraverso un'originale ricerca espressiva e compositiva che si è sviluppata in varie fasi, caratterizzate dall'adesione a tecniche e linguaggi totalmente diversi come la dodecafonia o la musica barocca o il Canto Gregoriano, è arrivato alla creazione di uno stile nuovo da lui chiamato Tintinnabuli, esprime perfettamente l'essenza di Fratres per violino, orchestra d'archi e percussione, inizialmente composto nel 1977 a tre voci senza una strumentazione fissa secondo una prassi che affonda le sue radici nella musica medievale e rinascimentale da lui studiate. A dimostrazione di questa concezione, secondo la quale l'essenza della musica è indipendente dagli strumenti, il compositore estone ha, infatti, realizzato di questo lavoro molte versioni per diversi organici a partire da quella per violino e pianoforte del 1980 fino a quella più recente del 1991 per violino, orchestra d'archi e percussione, oggi eseguita, senza dimenticare quelle per 4/8/12 violoncelli (1983), per quartetto d'archi (1989), per violoncello e pianoforte (1989) e per violino e orchestra d'archi (1991). In questo lavoro, inoltre, trova la sua perfetta applicazione lo stile tintinnabulare che, introdotto da Pärt per la prima volta nella sua Für Alina (1976) e da lui chiamato così dal latino tintinnabulum che significa campana, si basa su due voci delle quali, una tintinnabulare è caratterizzata dall'arpeggio della triade, i cui suoni vengono trattati dal compositore come se evocassero delle campane, mentre la seconda si muove diatonicamente. Questo stile, influenzato dalle esperienze mistiche di Pärt e dai canti religiosi, non è soltanto un'espressione musicale, ma coinvolge anche la sua visione della vita e il suo atteggiamento nei confronti dell'esistenza, come si evince da quanto da lui stesso affermato: 

    "La tintinnabulazione è un'area a attorno a cui mi aggiro a volte quando cerco risposte - nella mia vita, nella mia musica, nel mio lavoro. Nelle mie ore buie, ho la certezza che tutto ciò che si trova al di fuori di questa cosa non abbia significato. La complessità e le molte sfaccettature sole mi confondono e devo cercare l'unità: cos'è questa cosa e come faccio a trovare la via per raggiungerla? Le tracce di questa cosa perfetta appaiono in molte forme e tutto ciò che non è importante svanisce. La tintinnabulazione è così... Le tre note di una triade sono come campane ed è per questo che la chiamo tintinnabulazione."

    Nella versione oggi presentata, la voce tintinnabulare  è rappresentata dal violino solista che inizialmente esegue l'arpeggio della triade di la maggiore, in seguito modificata con l'abbassamento o l'innalzamento dei suoi suoni, per formare altri accordi, mentre gli altri archi eseguono una melodia che si muove ora diatonicamente ora cromaticamente. Fratres, che dal punto di vista della struttura è costituito da una serie di variazioni separate da un motivo ricorrente affidato alla percussione, fu composto su commissione del Festival di Salisburgo, dove è stato eseguito per la prima volta nella versione per violino e pianoforte nel 1980 con Gidon Kremer al violino ed Elena Kremer al pianoforte. Questa composizione, divenuta una delle più  famose del compositore estone, è stata utilizzata in numerose colonne sonore. 

    Durata: 12'

    Edward William Elgar
    Broadheath 1857 - Worcester 1934

    Concerto in mi minore op. 85 per violoncello e orchestra

    Adagio, Moderato

    Lento, Allegro molto

    Adagio

    Allegro, Moderato, Allegro ma non troppo, Poco più lento, Adagio.

     

    “Aveva un fortissimo dolore da parecchi giorni. Non c’era nulla di simile ai sedativi che abbiamo ora, ma nonostante ciò si è alzato una mattina ed ha chiesto la matita e la carta ed ha annotato il tema del Concerto per violoncello”.

    Da questo ricordo, lasciatoci da Carice, figlia del compositore, sul primo abbozzo del Concerto per violoncello e orchestra, conosciamo lo stato di malessere in cui Elgar versava quando si accinse a comporre quest’opera che costituisce l’ultimo grande capolavoro per orchestra del compositore inglese. Elgar aveva trascorso, infatti, uno dei periodi più difficili della sua vita, in quanto allo stato di frustrazione causato dalla Prima Guerra Mondiale, che sembrava aver inaridito la sua vena compositiva, si era aggiunto, nel marzo del 1918, una tonsillectomia, pericolosa per un uomo di sessant’anni, ma resa necessaria per il suo precario stato di salute. A maggio Elgar, insieme alla moglie Alice ed alla figlia Carice, ritornò a risiedere in Sussex, in un cottage di nome Brinkwells, scelto già nell’estate precedente come luogo di rifugio durante i momenti bui e tristi della guerra che aveva fatto maturare in lui la convinzione che dopo quei terribili momenti la vita in Europa sarebbe stata diversa e che anche la musica non sarebbe stata più la stessa. Ciò lo aveva quasi indotto a ritirarsi dalla sua attività di compositore, ma, nell’agosto del 1918, Elgar, rinfrancato dall’ambiente particolarmente salubre del luogo non molto lontano dal villaggio di campagna di Fittlewoth, comunicò alla famiglia il desiderio di farsi portare un suo vecchio Steinway verticale per riprendere a comporre. Disponendo del pianoforte, Elgar incominciò a lavorare alle sue tre più importanti composizioni da camera, la Sonata per violino e pianoforte op. 82, il Quartetto d’archi in re minore op. 83 e il Quintetto con pianoforte in la minore  op. 84.

    Eccezion fatta per la citata testimonianza della figlia, non si conosce quando Elgar si accinse a comporre i primi abbozzi del concerto, ma è possibile ricostruirne la genesi grazie ad alcune lettere e ad alcune testimonianze. È certo, infatti, che il 2 giugno del 1919, giorno del sessantaduesimo compleanno di Elgar, il Concerto era già a buon punto come lo stesso compositore disse all’amico direttore d’orchestra Landon Ronald che gli aveva telefonato per fargli gli auguri. La parte del violoncello, inoltre, doveva essere pronta tre giorni dopo quando il violoncellista Felix Salmond, primo interprete del concerto, la provò, come annotò la figlia:

    “Felix Salmond si dilettò molto ed era entusiasta”

    Con rinnovate energie Elgar, nei giorni successivi, lavorò al Concerto instancabilmente non fermandosi nemmeno di fronte all’eventualità di alzarsi anche alle 5 del mattino e lo completò alla fine di luglio come scrisse in una lettera indirizzata a Sidney Colvin; nella stessa lettera, inoltre, manifestando il desiderio di dedicare l’opera proprio a Sidney Colvin e alla moglie Frances, espresse la volontà  di dirigerla personalmente e di affidare la parte del solista a Felix Salmond. Il Concerto fu eseguito, infatti, per la prima volta, dalla London Symphony Orchestra al Queen's Hall il 27 ottobre  del 1919 sotto la direzione dello stesso Elgar e con Felix Salmond al violoncello.

    Il Concerto presenta un carattere nobile, che è segnato all’inizio della partitura nell’indicazione dinamica nobilmente apposta nella parte del solista. Il primo movimento si apre con un Adagio introduttivo di cui il protagonista indiscusso è il violoncello che si presenta al pubblico con tre accordi, dei quali gli ultimi due sono costruiti su tutte e quattro le corde dello strumento. Il carattere enfatico di questa parte introduttiva è smentito dal primo tema del successivo Moderato per la cui composizione Elgar non si avvalse della classica forma-sonata, ma di quella semplicissima della canzone tripartita. Questo tema principale, affidato alle viole, costituisce probabilmente il primo abbozzo del concerto a cui aveva fatto riferimento Carice e, con il suo carattere fluttuante, sembra manifestare la malinconia del compositore per un mondo perduto e ormai irrimediabilmente distrutto dalla guerra. Tutta la prima sezione è occupata dall’esposizione del primo tema, che dalle viole passa al solista ed ai violini primi e secondi per essere perorato, infine, da tutta l’orchestra. Il secondo tema, esposto in una scrittura dialogica tra legni, archi e solista, è il protagonista della appassionata seconda sezione. La ripresa del primo tema conclude, infine, il primo movimento.

    Non molto diverso è l’incipit del secondo movimento, Lento-Allegro molto, dove gli accordi iniziali del primo movimento sono ripresi nelle prime due battute introduttive, interrotte dal tema ribattuto dell’Allegro molto che non si afferma subito, ma cede il posto a una cadenza pensosa del violoncello il quale, alla fine, si lascia andare a quella che sembra una rievocazione della meravigliosa campagna del Sussex dove, con alcune interruzioni, Elgar visse negli anni compresi tra il 1917 e il 1919. Sembra che il carattere spensierato di questo tema, che in modo onomatopeico richiama il canto degli uccelli, possa affermarsi soltanto in un momento, in questo movimento appunto, e con una certa difficoltà.

    Il brevissimo terzo movimento, Adagio, è costituito da una delicatissima romanza senza parole che, partendo da un impalpabile pianissimo, raggiunge il suo punto culminante nella parte centrale per poi scemare nel Finale che si conclude insolitamente sull’accordo della dominante (fa maggiore) di si bemolle maggiore, tonalità d’impianto dell’intero movimento.

    Il quarto movimento (Allegro, Moderato, Allegro ma non troppo) si collega al primo per la struttura del tema che deriva da quello del recitativo originario, esposto inizialmente dall’orchestra in una forma brillante per essere ripreso dal violoncello in una versione che presenta un carattere eroico. Il primo tema dell’Allegro ma non troppo, che, dal punto di vista formale si presenta come una sintesi tra il rondò-sonata e la forma del tema e variazioni, ha un carattere brillante che contrasta con l’enfasi melodica della seconda idea. La parte centrale dell’Allegro costituisce la vera e propria sezione virtuosistica la cui regolare struttura melodica è una variazione brillante del tema iniziale. Un’ulteriore variazione del tema costituisce una falsa ripresa di quello iniziale che, alla fine, ritorna nella sua forma originaria, come anche il secondo tema. La coda  (Poco più lento e lento) introduce la ripresa del recitativo del primo movimento descrivendo, in questo modo, un cerchio perfetto e conferendo all’opera una grande unità formale e d’ispirazione. A tale proposito la ripresa, nel finale, del brillante tema di quest’ultimo movimento costituisce un’ulteriore conferma del carattere unitario dell’opera.

    La morte dell’amata moglie, avvenuta alcuni mesi dopo, allontanò definitivamente Elgar dalla sua attività compositiva e, così Il Concerto per violoncello e orchestra rimane l’ultima grande opera per orchestra del compositore inglese. A confermare il carattere di testamento artistico, che sembra avere il Concerto, si narra un aneddoto secondo il quale Elgar, ormai sul letto di morte, dopo avere canticchiato ad un amico il tema di apertura, disse:

    “Se mai dopo che io sono morto, tu ascolterai qualcuno fischiettare questo motivo sul Malvern Hills, non allarmarti. Sono proprio io”.

    Durata: 30'

    Ludwig van Beethoven
    Bonn, 1770 - Vienna, 1827

    Sinfonia n. 5 in do minore op. 67

    Allegro con brio

    Andante con moto

    Allegro

    Allegro, sempre più allegro, Presto

     

    Composta tra il 1804 e il 1807, anche se fu completata nel 1808, la Quinta sinfonia, dedicata al principe Lobkowitz e al conte Rasumovsky,  fu eseguita per la prima volta sotto la direzione di Beethoven, insieme alla Sesta e ad altri lavori in un lunghissimo concerto tenuto al Theater an der Wien a Vienna il 22 dicembre 1808. L’accoglienza del pubblico fu piuttosto fredda anche per la lunga durata dell’Accademia che comprendeva oltre alle due sinfonie, una Scena e aria, cantata da Mademoiselle Killishky, un Gloria, il Concerto n. 4 op. 58 per pianoforte e orchestra, un Sanctus con solista e coro e la Fantasia op. 80 per coro, pianoforte e orchestra. A tale proposito è significativo quanto scrisse il compositore Johann Friedrich Reichardt che, ospite del principe Lobkowitz, assistette al concerto:

    “Vi siamo stati a sedere dalle sei e mezza fino alle dieci e mezza in un freddo polare, e abbiamo imparato che ci si può stufare anche delle cose belle. Il povero Beethoven, che da questo concerto poteva ricavare il primo e unico guadagno di tutta l’annata, aveva avuto difficoltà e contrasti nell’organizzarlo. […] Cantanti e orchestra erano formati da parti molto eterogenee. Non era stato nemmeno possibile ottenere una prova generale di tutti i pezzi, pieni di passi difficilissimi. Ti stupirai di tutto quel che questo fecondissimo genio e instancabile lavoratore ha fatto durante queste quattro ore. Prima una Sinfonia Pastorale o ricordi della vita campestre pieni di vivacissime pitture e di immagini. Questa Sinfonia Pastorale dura assai di più di quanto non duri da noi a Berlino un intero concerto di corte. […] Poi, come sesto pezzo, una lunga scena italiana […] Settimo pezzo: un Gloria, la cui esecuzione è stata purtroppo completamente mancata. Ottavo brano: un nuovo concerto per pianoforte e orchestra di straordinaria difficoltà […]. Nono pezzo: una Sinfonia [la Sinfonia n. 5 op. 67]. Decimo pezzo: un Sanctus […]. Ma al concerto mancava ancora il “gran finale”: la Fantasia per pianoforte, coro e orchestra. Stanchi e assiderati, gli esecutori si smarrirono del tutto”.

    La straordinaria novità di questa Sinfonia non sfuggì, però, alla critica romantica e, in particolar modo, ad Ernst Theodor Amadeus Hoffmann che, nel suo saggio, La Quinta sinfonia di Beethoven, pubblicato sulla rivista Allgemeine Musikalische Zeitung nel 1810, la definì una composizione meravigliosa.

    Il primo movimento, Allegro con brio, si apre con il celeberrimo tema di quattro note, a proposito del quale lo stesso Beethoven ebbe modo di dire a Schubert: Ecco il destino che batte alla porta. Tutto il materiale tematico del primo movimento è originato da questo primo tema sul quale Hoffmann, nel succitato saggio, così si espresse:

    “Nulla può essere più semplice della frase principale del primo allegro, consistente di due sole battute, che dapprima nell’unisono non dà all’uditore nemmeno un tono determinato.”.

    Questo tema costituisce il principio unitario su cui si fonda l’intera sinfonia, in quanto appare mascherato in alcuni passi del secondo movimento, Andante con moto, formalmente un tema e variazioni interrotte, quest’ultime, da fanfare degli ottoni, e ritorna nello Scherzo (Allegro) in tutta la sua forza, quando, affidato ai corni, dà origine ad una nuova idea tematica che alla fine del movimento introduce il quarto direttamente legato al precedente da una fase di transizione. Quest’ultimo movimento, Allegro, sempre più allegro, Presto, nell’incalzare del ritmo, costituisce una vera e propria apoteosi resa da una costruzione grandiosa di grande effetto.

     

    Riccardo Viagrande

     

     

    Durata: 29'